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La coincidenza fra il ventennale dell'11 settembre e il ritorno dell'Emirato islamico in Afghanistan chiude il cerchio di una storia che sembra tornare al punto di partenza. E dimostra, con il fallimento della «global war on terrorism», l'inconsistenza dei suoi presupposti culturali, dalla teoria dello scontro di civiltà al progetto di esportazione armata della democrazia. Mentre il mondo si interroga sulle conseguenze geopolitiche della disfatta occidentale a Kabul, il ventennio alle nostre spalle si contrae in un tempo di transizione largamente contrassegnato, sulle due sponde dell'Atlantico, dagli effetti dell'attacco alle Torri gemelle e della risposta bellica americana: politiche securitarie e xenofobiche, crisi del multiculturalismo, erosione dei diritti e delle garanzie costituzionali, backlash e fine del patriarcato. Ma l'11 settembre non fu solo l'inizio di tutto questo: fu anche l'epifania in diretta televisiva del mondo globale nato sulle ceneri del bipolarismo novecentesco. E la ferita di Manhattan fu anche un trauma del pensiero che domandava un salto di fronte all'impensato. Dalla critica della sovranità nazionale ai paradigmi biopolitici del governo del vivente all'ontologia femminista della vulnerabilità e dell'interdipendenza, si forma allora quell'agenda filosofico-politica tuttora necessaria, e tuttavia non sufficiente, per affrontare un nuovo evento globale come quello pandemico, scatenato non più dal virus terrorista ma da un virus biologico.